Il blog di Fondazione Primavera Missionaria

La testimonianza di Daniela

Ago 21, 2019 | Testimonianze

Daniela Mucci ci racconta la sua testimonianza del suo viaggio in Tanzania, viaggio che le ha permesso di vivere un continente che ama da quando era piccola e poter implementare il suo percorso professionale, avendo l’opportunità di scrivere la tesi svolgendo attività di ricerca presso l’Ospedale S. Gaspare di Itigi .

Non era stata la mia prima volta in Africa; la sognavo da quando avevo 15 anni.

Grazie al viaggio di nozze in Tanzania, parte del mio sogno si era già realizzato: l’anno seguente io e mio marito Tommaso avevamo scelto la Namibia.

Ancora però non sentivo di aver realizzato completamente il mio sogno: desideravo conoscere più a fondo quella cultura, quelle persone, donne dai costumi tipici alquanto colorati e bambini dagli occhi grandi. Così, ad inizio corso, (secondo anno della laurea magistrale in Scienze dell’alimentazione e della nutrizione umana), il docente di Endocrinologia Nicola Napoli proponeva un’esperienza di tesi in Africa che non potevo rifiutare.

La voglia era tanta, ma cresceva in me anche la paura di non potercela fare: era la mia prima esperienza da sola, lontano da casa. Inizialmente io e Vittoria, la collega che aveva accettato insieme a me la proposta di tesi in Africa, non sapevamo quale fosse il Paese preciso cui saremmo state destinate. Sapevamo però che il continente era quello africano e a noi bastava questo. Ciò che inizialmente destava in me preoccupazione era il fatto di non conoscere benissimo la lingua inglese, ma confidavo nell’istinto di sopravvivenza.

Così, dopo diversi incontri col professore, il 5 agosto ci siamo trovate all’aeroporto di Fiumicino, pronte per un volo diretto in Africa orientale: in Tanzania.

Quel mattino, tra l’altro il destino mi aveva riservato, al momento del check-in, un inaspettato upgrade gratuito in business class che ha reso ancora più confortevole il mio viaggio. Dopo un volo durato dieci ore, siamo atterrate nel pomeriggio a Dar Er Salam, dove ci è venuto a prendere Dino, il nostro good driver e futuro dispensatore di sorrisi, soprattutto nei momenti di sconforto. Durante il transfer verso l’alloggio ho avuto occasione di ammirare quello che il professore ci raccontava a seguito della sua esperienza in questi luoghi: una città, come Dar, che al calar del sole si accende di luci. Quelle dei mercati lungo la strada, dove la gente ride e chiacchiera intorno a enormi e caldi bracieri che cuociono chapati e mandasi, dolci tipici ad altissimo indice glicemico.

La mattina seguente, siamo partite in jeep per Itigi. Dieci ore di viaggio, intervallato da soste in bar tipici e case della Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue. Arrivate a Itigi, abbiamo trovato molte persone disposte a prendersi cura di noi, a cominciare da Lucio, un italiano trasferitosi lì da diversi anni, che si prende cura del magazzino della farmacia dell’ospedale; anche tutti i medici si sono messi a nostra disposizione, presentandoci ciò che era quella realtà, che sarebbe diventata anche la nostra nei giorni a venire.

La cosa che ho apprezzato molto è stata l’etica che questo ospedale aveva: il venire incontro a chi aveva difficoltà economiche, dare priorità nel salvare la vita altrui anziché guardare il fattore economico del profitto.

Questo è uno dei principali motivi per il quale l’ospedale si trova in una situazione di crisi economica. Altra cosa interessante e affascinante è stato veder lavorare con professionalità e amore le suore medico e/o infermiere dei vari reparti. Le domeniche si andava tutti insieme a messa, celebrata completamente in lingua swahili, con il coro che si esibiva in canzoni tribali come “Sala yangu na ipae miele yako” (“La mia preghiera salga a Te come fumo”), un’esperienza davvero unica. Ogni domenica dopo la messa sapevo di potermi sentire per un attimo in famiglia grazie alle deliziose colazioni preparate da suor Dina e suor Esterina, due donne coraggiose che vivono ad Itigi da quasi 40 anni e che hanno dedicato la loro vita al servizio dei malati. Un altro momento che ricordo con affetto sono le preghiere del pomeriggio nella piccola chiesa insieme alle suore orsoline, completamente in lingua swahili anche quelle, accompagnate da tamburelli e altri strumenti tipici.

Il nostro lavoro consisteva nel ricercare la correlazione tra l’assunzione di farmaci antiretrovirali con relativi effetti collaterali che portassero alla comparsa di malattie cardiovascolari e metaboliche.

L’impatto con i pazienti inizialmente è stato forte. Quasi nessuno di loro parlava l’inglese, ma solo la lingua locale, lo swahili. Spesso parlavano anche dialetti. Ciò che più mi stupiva però era come ognuno di loro si mettesse a nostra disposizione. Col tempo incominciavo a guardare i pazienti negli occhi, mi abituavo al loro modo di parlare e di rapportarsi con noi; tutti sempre così disponibili e comprensivi. Ad un certo punto mi sono sentita così integrata che ho cominciato a usare alcuni loro modi di fare: contare come loro, usare termini della loro lingua locale (che in Italia ancora mi capita di utilizzare).

Quello che ho potuto notare è sicuramente il fatto che queste persone hanno bisogno di figure professionali che consiglino loro come mangiare e abbinare gli alimenti, per non incorrere in carenze nutrizionali di tipo proteico. È importante, inoltre, insegnare ai pazienti diabetici come adeguare la dose insulinica alla quantità di carboidrati assunti durante i pasti.

Tra le cause dell’epidemia di HIV sono i rapporti promiscui, che avvengono da entrambe le parti, ma soprattutto da parte dell’uomo, che per motivi religiosi e sociali spesso può avere più di una moglie. In alcune tribù rurali, quelle più tradizionaliste, purtroppo vengono ancora praticate tecniche come l’infibulazione e la rimozione dei genitali della donna, requisito fondamentale per poter trovare marito, il quale il più delle volte viene scelto dalla propria famiglia e non dalla futura sposa. L’altra cosa che mi ha sorpreso è stato scoprire che alcuni bambini fino a 10 anni non hanno un nome ben preciso, dato l’alto tasso di mortalità infantile. Si tratta probabilmente di un meccanismo “di difesa” adottato dai genitori per far sì di non affezionarsi così tanto a quel figlio, fino a che non hanno la garanzia che abbia superato quell’età con un’alta vulnerabilità di salute.

Il sabato era la giornata della clinica mobile: insieme alle infermiere e alla fisioterapista ci recavamo nei villaggi per visitare donne incinte e bambini.

Dopo il lavoro potevamo passare del tempo libero nel villaggio, girando per le loro abitazioni e scovando qua e là bambini curiosi e desiderosi di conoscerci. I loro genitori si dimostravano molto accoglienti, invitandoci a sedere fuori su piccoli sgabelli traballanti creati da artigiani locali. Alcuni bambini, probabilmente non avendo mai visto un bianco, non appena ci vedevano piangevano, pensando che fossimo albini. Soprattutto io destavo particolare interesse, forse perché chiara di carnagione e bionda. I bambini non facevano altro che toccare i miei lunghi capelli, per accertarsi che fossero veri o sentire semplicemente come fossero al tatto dei capelli lisci e lunghi. Appena vedevo questi bambini non potevo fare a meno di abbracciarli e il mio camice diventava marrone come la terra che avevano loro addosso. In particolare ricordo una bambina, Daki, che non appena mi ha conosciuto non ha fatto altro che rimanere tra le mie braccia in cerca di affetto. Quello che ho provato andando via è indescrivibile: lei non voleva lasciarmi, anzi voleva venire via con me, salire in macchina; vederla piangere correndo verso casa… be’, credo non lo dimenticherò mai! Come non potrò mai dimenticare Salima, la bambina dagli occhi grandi e dal sorriso più dolce e furbo che abbia mai visto, affetta da osteomielite.

Ciò che rimarrà per sempre nel mio cuore saranno le persone che ho conosciuto in questa meravigliosa avventura:

alcuni medici, come il dottor Salis, un uomo che ha dedicato la sua intera vita a quell’ospedale, a cui devo veramente tanto sia dal punto di vista professionale che umano, il dottor Mikaeli, mio grande amico e ispiratore di pensieri positivi e buoni, il dottor Nerbat, giovane tirocinante, che è stato uno dei primi a dedicarmi del tempo e a farmi sentire come a casa, sister Incoronata, altra colonna portante dell’ospedale, medico pediatra, una donna vulcano piena di idee che hanno rivoluzionato l’ospedale in positivo. Ricordo con immenso affetto anche infermiere e suore, in particolare suor Mary Frida, compagna di preghiere, di risate, di confidenze. Per me è stata una grande risorsa, come lo sono state le consorelle suor Mary, suor Edith e suor Graziana, che ricordo con grande affetto e con un sorriso sulle labbra. Un’altra persona speciale è stata suor Esperancia, grande aiuto durante la nostra ricerca e compagna di lavoro che è stata capace di rendere piacevoli e divertenti anche i momenti più difficili della nostra esperienza.

Non c’è un giorno nel quale non pensi a loro. Hanno saputo arricchire la mia anima con un semplice ma puro sorriso, con un meraviglioso e grande abbraccio.

Sicuramente ci sono stati momenti di difficoltà durante il lavoro – l’approccio con pazienti più problematici o semplicemente vedere persone in fin di vita – però l’aiuto di Dio è stato per me una grande risorsa, nessuno dello staff mi ha voltato mai le spalle, ho conosciuto delle persone meravigliose che non potrò mai dimenticare.

Ognuno di loro attraverso un sorriso, un minuto speso a parlare con me, un gesto gentile nei miei confronti ha reso questa esperienza indimenticabile e in parte ha cambiato i miei progetti lavorativi.

L’altra cosa magnifica è stata conoscere Davis, un insegnante di una scuola primaria, e avere avuto il privilegio di poter tenere insieme a Vittoria due lezioni che riguardavano l’educazione alimentare e l’hiv. Ciò che più mi ha colpito è stato vedere come i maestri sono in grado di interagire con questi bambini mantenendo alta l’attenzione e come questi bambini portavano molto rispetto ai professori. Vedere come il più delle volte non hanno dei mezzi appropriati per poter studiare, a cominciare dal libro per finire al banco, non hanno la merenda, ma nonostante questo sono tra i bambini più sorridenti e felici che io abbia mai visto.

Ho visto mamme e bambini immersi in una povertà estrema, ma che erano in grado di vivere sereni anche se alla giornata, perché lì nessun problema realmente è definito tale.

“Hakuna matata”, questa è la prima frase che ho imparato qui. In Africa la vita scorre lentamente: se ti vedono camminare con andatura sostenuta si chiedono il perché, pensano “Forse è successo qualcosa?”, perchè lì il tempo scorre “pole pole”, ovvero lento lento.

Quello che mi rendeva felice era rendermi utile ogni giorno anche nelle cose più piccole, ma realmente penso che la cosa che mi manchi di più siano loro, perché sono loro, i bambini, ad avermi donato tanto, pur non avendo niente. Ora il mio desiderio è tornare lì a portare quello di cui hanno bisogno e magari trovare anche il modo di rendirmi utile attraverso il mio lavoro.

Fonte : UNICAMPUS

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